| | | |
Uploading ....
Peter Gabriel, "Up": una quasi-recensione "Life carries on in the people I meet / in everyone that’s out on the street"
Una cosa e’ il tempo. Una cosa che prende il suo tempo, il tempo necessario a svilupparsi.
Una cosa come una canzone, di questo si parla qui. Le canzoni dell’album Up di Peter Gabriel. Growing up, oppure I Grieve, ad esempio. Sky Blue dalla sua si mostra nei primi 30" e ti pare di averla capita tutta. Poi dopo quattro minuti ti accorgi come si e’ sviluppata, dove ti ha portato. Al tempo viene dato spazio. Di esprimersi, di intrecciarsi nell’esistente, di provocarne i cambiamenti, di raccogliere, registrare, le modificazioni. Dopotutto, è semplice: passa il tempo e non e’ come prima. Negarlo e’ una nevrosi. Una coazione a ripetere, anche musicale, strofa/ritornello/strofa in una metrica temporale asfitticamente rigida. Ed il permettersi di fare una canzone di sette, otto minuti è una sana liberta’, nonchè dimostrazione d’indubbio talento. Vi sono difatti, canzoni che dopo 120 secondi non vedi l’ora che terminino. Invece ascolti Up e ti giri per guardare il tempo sul lettore, beh sono passati cinque minuti di I Grieve e a te pare sia appena cominciata. Questo è il clima. La festa dei suoni si andrà a chiudere con Signal to Noise, insieme tributo esplicito alle influenze musicali della terra d’Africa, ed ambiente aperto - ancora! - alla sperimentazione, e la suggestiva e raccolta The Drop, che chiude l’album.
Un’altra cosa, ma la prima cosa tra tutte le cose, qui e’ il grido. Quel grido che è una domanda, una domanda di senso verso le cose stesse. Lo senti dall’intonazione, sofferta e così conosciuta, da noi, della voce di Peter. Anche nel sentimento dell’angoscia, che trova luogo in Darkness, il pezzo che apre l’album: non si respira rassegnazione, ma un combattimento, una sorta, ultimamente, di richiesta... "it’s not the way it has to be". Si chiede che le cose abbiano un senso, si chiede anche se il senso sembra non apparire, affiorare, ancora. Non ancora. Il grido di senso su cui le cose stesse finalmente, trovano un riposo ed una giustificazione alla stessa loro esistenza che, altrimenti, sarebbe un’inostenbile ostentazione senza ragione alcuna. Mentre ascolto in cuffia mi si profila più chiaro l’inganno consueto e supinamente accettato, da me prima di tutto, del bonario adattarsi alle cose e alla loro esistenza, a prescindere da un senso. Da una richiesta di senso così sentita dal cuore, così urgente, d’essere d’ogni minuto. Così poi devi lottare nel vedere le cose sprofondare nella polvere... Digging in the dust... ingabbiate dalla loro stessa mancanza del senso. Non sono al loro posto le cose se non c’e’ un senso. Un senso globale... Troppo bello per essere vero? No, semplicemente necessario. Loro stesse, le cose, d’altronde non chiedono questo "privilegio". Solo se rientrano al loro posto in uno scenario grande esse stesse ritrovano una pace, e così il rapporto dell’uomo con esse. Cosi’ penso ascoltando, e ripensando poi, rientrando nell’esperienza dell’ascolto.
Accanto a questo, registro come questa musica, allacciandosi a simile musica che tanta parte ha avuto nella mia crescita, nel passaggio misterioso dall’adolescenza all’eta’ della ragione, nel ritrovato senso di queste note, giochi piacevolmente con le mie passate impressioni, e cio’ che il ricordo di tanti entusiasmi poteva far passare come entusiasmi giovanili - oh che mirabile ri-scoperta ! - nel girare intorno ad essa, e trovare, ri-trovare, una base consistente, una perdurante consonanza, dopo tutti questi anni. Dopo tante tante cose accadute nel microcosmo cosi’ onnicomprensivo, della mia esistenza particolare. Dopo tanti sogni, tanti momenti di scelta, di gioia, di dubbio, di tormento, d’indecisione, di tristezza. Dopo il lento sedimentarsi, anche, di un quadro di affetti, sempre da confermare e riscavare nell’esperienza quotidiana, nella lotta per far emergere la realta fuori dalla polvere. Cosi’ una qualunque sera estiva metto il disco nel lettore, indosso la cuffia e d’inprovviso istante, sono in vicinanza evidente, con il me stesso di tanti, tanti anni fa. Ma non nel senso di un ripiegamento effimero, nostalgico o puramente sentimentale, piuttosto, nella luce di un lavoro di recupero e consolidamento - paziente di necessita’ - di se nel rapporto con le cose, e le emozioni. Che emozione, essere cresciuti ma mai, mai, veramente cambiati, nella struttura originaria del proprio cuore. Che poi, ultimamente non puo’ cambiare, credo. Puo’ solo aprirsi, vincere la timidezza, poi magari, ripiegarsi per un poco, tornare ad aprirsi.
D’accordo, si sarà capito: a me piace questa musica, il quadro di riferimento ch’essa definisce, a cui rimanda. E sono incapace di tacere cio’ che mi piace. Ne’ tutto sommato. troppo mi preoccupa quest’incapacita’. Naturalmente v’e’ molto spazio, oltre questa soggettiva "quasi-recensione", e molte cose non ancora accennate, senza dimenticare la (inevitabile) dotta disquisizione sul genere specifico di questa musica, l’analisi dei rapporti col mercato, infine, la ponderata valutazione dell’ essere o meno in un quardo di"musica di consumo" (brutta locuzione invero), musica "commerciale". Però anche fosse? Qui parlo di cose non d’una astratta cultura, ma mischiate con la vita, con le sue contraddizioni, con le sue speranze, col suo camminare....
"Life carries on in the people I meet".
http://www.scrivi.com/pubblicazioni.asp?id_pub=72016
|
|
|
| | | |
|